La Macchia

Un racconto breve, scritto durante una vacanza a Venezia nel 1991: un modo come un altro per affidare alla cache di google un vecchio file in formato .wri, che altrimenti andrebbe perso. Buona lettura a chi avrà voglia.

La vidi, per la prima volta, un sabato del luglio scorso. Me ne stavo sdraiato sul divano in salotto, aspettando che Lucia ritornasse dal corso di fotografia, che allora frequentava con grande passione. Sapevo che sarebbe arrivata verso le cinque, come  del resto faceva sempre, ed avendo a disposizione ancora qualche ora di tranquillità – più tardi saremmo dovuti andare al supermercato nella ressa del fine settimana – avevo deciso di concedermi una pausa, diciamo pure meritata. Tra le più disparate attività, in cui mi dilettavo con profitto, quella in cui riuscivo meglio era, senza dubbio, sonnecchiare in salotto. Armatomi quindi di una birra gelata, unico rimedio contro l’eccezionale ondata di afa di quei giorni, scelsi la rivista scientifica, a mio giudizio più narcotizzante, e mi gettai a capofitto sul morbido divano.
E’ noto che la soddisfazione che si prova a dormire in salotto, magari con la televisione accesa – il che rende l’azione più trasgressiva-, è di gran lunga maggiore di quella che si ottiene in un comodo letto: c’è tutto il sapore di un vuoto pomeriggio inutilmente trascorso.
Devo riconoscere, che quella volta il sonno non fu all’altezza della situazione. Forse, come direbbe mia moglie, la mente è in grado di sentire l’avvicinarsi di quegli eventi importanti che “ti cambiano la vita”, o forse, come sostengo io, è il caldo dei pomeriggi d’estate che ha questo effetto. Comunque sia, mi risvegliai più stanco di prima, fradicio di sudore ed inequivocabilmente angosciato. Decisi che non era il caso di alzarsi – sarebbe stato uno sforzo eccessivo – e rimasi mollemente abbandonato sul divano a guardarmi intorno.
Non c’era alcun dubbio che fosse il salotto di sempre; il tavolo era sempre al suo posto, così come pure le sedie, i tappeti, la televisione e tutto il resto. Tuttavia c’era anche qualcosa che non andava, un che di diverso e mi ci volle almeno un quarto d’ora di accurata indagine prima che mi rendessi conto di quale fosse l’elemento estraneo.
Alla fine la vidi, era sulla parete di fronte. In effetti sembrava una piccola macchia di vernice grigia che per contrasto risaltava sullo sfondo bianco. Era tra il quadro raffigurante una natura morta e l’acquerello, a circa un metro e mezzo dal pavimento, illuminata in pieno dal sole. Strano era il pensare di non averla notata in precedenza: dal momento che nessuno aveva maneggiato delle vernici era ovvio che la macchia doveva essere sempre stata lì.
Tuttavia il torpore ebbe la meglio sulla curiosità e, finita con un sorso la birra ormai intiepidita, mi riaddormentai. Non pensai più alla macchia per qualche giorno, precisamente fino a quando venni rimproverato da Lucia per aver sporcato, approfittando della sua assenza, la parete del salotto nel corso di un non meglio precisato lavoro di “fai da te”. Il rimprovero suscitò in me diversi pensieri: innanzi tutto lo stupore nel constatare la capacità della consorte, dalla corporatura minuta e dal carattere normalmente dolce, di liberare simili energie per riprendermi; secondariamente la considerazione che, evidentemente, la macchia era di origine relativamente recente – in caso contrario la strigliata sarebbe dovuta arrivare molto prima, e non me la sarei certo dimenticata.
Pur sapendo di non aver responsabilità nella genesi della macchia, non volli contraddire la mia tenera metà e, tornando a casa dal lavoro, mi procurai il necessario per eliminare l’oggetto della sua sfuriata.
Una leggera passata di carta vetrata ed una mano di vernice risolsero brillantemente il  problema facendomi meritare, oltretutto il perdono per un torto non commesso.
Due giorni dopo la macchia era ancora là, tra la natura morta e l’acquerello,  solo che ora era piuttosto allargata, con il bordo non più netto come prima, leggermente frastagliato, ma comunque dello stesso colore. Chiamai quindi Lucia, e difendendo la qualità del lavoro appena compiuto, dimostrai la mia innocenza nella presenza della chiazza.
Per tutta risposta ottenni il secco ordine di rieffettuare il lavoro di manutenzione della parete. Dipingere non mi dispiaceva, anzi, e accondiscesi di buon grado alla richiesta, sebbene il tono da lei usato mi avesse un poco innervosito.
Il lavoro, questa volta ottenne maggiore successo, infatti la macchia non ricomparve che due settimane dopo. Tuttavia le dimensioni erano davvero impressionanti, dell’ordine di un metro quadrato. Impressionante era anche la velocità con cui era riemersa dall’intonaco. La sera prima non c’era, e di questo ne ero sicuro, poichè avevo preso l’abitudine di controllare quotidianamente lo stato della parete, mentre ora si estendeva  fin sotto i due quadri, ed anche molto verso il basso. L’aspetto era diverso: il bordo era frastagliato, colorato di un intenso marrone in una sottile linea con circonvoluzioni estremamente complesse, quindi c’era una zona molto grande di colore grigio chiaro, e quindi, al centro della struttura, che in complesso ricordava il disegno di una cellula in sezione, la solita macchiolina a forma di goccia di grigio intenso. Al tatto la parete era piuttosto umida e la zona colorata emanava un intenso odore di marcio.
Assodato che lo strano fenomeno non aveva nulla a che fare con le mie attività hobbistiche, cosa che senza esitazione ammise anche mia moglie, il problema principale era allora stabilire da cosa fosse prodotta. La risposta non era semplice in quanto la parete, che era un divisorio che io stesso avevo eretto per ricavare con parte del salotto uno studiolo in cui lavorare in tranquillità, non contenteva tubazioni che potessero giustificare perdite d’acqua. Giungemmo ad intuire di cosa si trattasse la sera stessa quando fummo svegliati da un grande baccano. Lo spettacolo del salotto era raccapricciante. I due quadri erano in terra, ed il vetro di protezione era andato in mille pezzi, le cornici completamente infradiciate ed intaccate dagli essudati della macchia, nella caduta si erano irrimediabilmente danneggiate, ed infine il muro presentava, dove prima era il centro della struttura, un ampio varco attraverso il quale si riusciva a vedere la scrivania dello studiolo. La macchia era evidentemente una sorta di muffa a me sconosciuta che riusciva ad intaccare un po’ tutto – mattoni e legno compresi – e che continuava ad estendersi velocemente. Quando riuscii a distogliere lo sguardo dal buco, mi accorsi poi che c’erano almeno altre tre macchioline grigio scuro disseminate sulla stessa parete: aveva germinato.
Era chiaro che bisognava impedire alle nuove macchie di giungere a maturazione, ed in effetti il sistema suggerito da Lucia, sebbene piuttosto drastico, mi sembrò anche l’unico efficace. In pratica si trattava di rinunciare allo studiolo, per lo meno per un certo periodo, abbattendo l’intero muro ed eliminando tutti i detriti.
L’indomani ci alzammo molto presto, svegliati dall’odore nauseabondo che quel muro marcescente emanava, e recuperato dalla cantina un pesante piccone, iniziammo l’azione devastatrice eliminando in poche ore il mio lavoro di giorni.
Devo confessare che, sebbene fossi dispiaciuto nel compiere lo sciagurato gesto, ormai ero piuttosto esasperato dall’orrendo organismo che infestava il salotto, e in tutta l’operazione non ebbi rimpianti.
La necessità di avere un luogo dove poter lavorare in santa pace, fu poi il pretesto da me adottato per giustificare, di fronte a me stesso, a Lucia ed ai vicini – questi ultimi ormai non mi salutano neppure – l’inizio dei nuovi lavori che due mesi fa mi hanno permesso di riavere una stanza tutta per me.
La gioia è tanta, non lo nego, tuttavia qualcosa ancora mi turba: una piccolissima macchiolina grigia, dalla forma di goccia e dall’aspetto lucido sul collo di mia moglie.

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